Recensione di Cristiano Castelfranchi

 

Questo libro esce in una particolare congiuntura per l'Italia. E' appena nata l'Associazione Italiana di Scienze Cognitive,  è nato da poco l'Istituto  per le Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR, nasce ora a Rovereto il Dipartimento di Scienze Cognitive e della Formazione dell'Università di Trento (che ritengo sia il primo). Vi sono da non diversi anni e sono molto attivi Dottorati in Scienze Cognitive a Torino, Siena, Milano, Padova ecc.  Numerosi sono i  corsi, i convegni, i seminari con questo taglio presso i filosofi (esempio, Genova, Vercelli, Siena, Padova,  Roma, Palermo, ...); varie associazioni sono attive in tal senso (SILFS, AI*IA, AIP, SITCC, i linguisti,  la Fondazione Basso, ...). Vi è persino una qualificata presenza sui media (ad esempio, sul Domenicale del Sole 24 Ore).

Qualcosa sta crescendo; forse favorito dal gran parlare di società ed economia della conoscenza, di "capitale cognitivo". Gran parlare perché la trasformazione della natura dei prodotti, dei processi e delle tecnologie è oggettiva, ma l'Italia in realtà segue a fatica, con ritardo. Queste parole non corrispondono ad una reale politica pubblica e privata  di investimento in ricerca, in innovazione, in formazione, in qualità. L'Italia non si allinea realmente alla sfida Europea della piattaforma di Lisbona. In questo vivace panorama di crescita culturale e di interesse, cominciano ad esserci diversi libri di ScCogn italiani. Per vari anni abbiamo vissuto di traduzioni. E tra questi libri italiani non abbiamo solo testi di ricerca, ma anche introduzioni e manuali.

 

Uno di questi è Scienze della Mente a cura di Anna Borghi e Tina Iachini, per i tipi de Il Mulino, editore benemerito nell'area, non solo per titoli e collane presenti da molti anni, ma anche per la pubblicazione della rivista italiana di scienze cognitive, Sistemi Intelligenti. 

 

Si tratta di un libro scritto da giovani, un libro da consigliare prima di tutto ai giovani in formazione, ma non solo  a loro. Anche lo studioso di scienze cognitive vi troverà utili raffronti e temi (dato il taglio nettamente interdisciplinare), e lo specialista  di psicologia, linguistica, IA, ecc.  sarà costretto ad uscire dai suoi confini.  Uno dei meriti del libro è obbligarci a riflettere su presupposti dati per scontato. Un altro è il fatto che molti dei temi e dei problemi toccati sono quelli giusti, quelli spinosi. Un altro è che molti capitoli (come quello della Origgi su evoluzione e modularità, o quello sulla coscienza, o quello sui concetti) sono estremamente chiari e sintetici (semmai talvolta un po' scolastici, ma credo che ciò sia un pregio per una parte dei destinatari).Il punto di forza del libro - al di là della specifica qualità dei vari capitoli - è la proiezione sulle nuove linee, le nuove tendenze. Non si tratta solo di fatale  attrazione tra i giovani  e le idee che appaiono come nuove. Si tratta piuttosto di una operazione politicamente sensata, massimamente in Italia dove l'ambiente accademico tende ad essere piuttosto tradizionalista  e lento nelle dislocazioni, specie se comportano travalicamenti di confini disciplinari. Questa prospettiva appare inevitabile e giusta, il libro si colloca a pie' pari nel dibattito attuale, evitando - per grazia di Dio - di adottare una prospettiva storicistica e filologica che è il purgatorio obbligatorio per tanti libri italiani specie di giovani. Tuttavia, questa adesione ai nuovi "paradigmi" (o almeno a quelli che ambiscono ad esser tali) ogni tanto assomiglia di più ad una ideologia che ad un programma; è talvolta acritica, ingenua, ed un po' sommaria.

 

Sommaria, come l'affermazione che "negli ultimi 40 anni la mente è stata concepita come qualcosa di indipendente dalla natura, come ciò che distingue gli esseri umani dagli altri animali e che non può essere studiata con le metodologie usate nelle scienze della natura" (p.8).  Se "della natura" significa biologiche, direi che (a parte Piaget, che è prima dei 40 anni) possiamo ignorare gli studi comparativi sulle scimmie? Hanno costituito un dibattito piuttosto centrale per le scienze della mente. Ed in genere la psicologia comparata (su cui vi è un bel capitolo di Sovrano e Vallortigara). E la psicologia evoluzionistica (cui infatti è dedicato un paragrafo nella introduzione ed un giusto appunto critico)? E possiamo liquidare così facilmente i notevoli contributi delle neuroscienze cognitive (ad esempio la neuro-psicologia)? Inoltre, "della natura" non dovrebbe essere in questa sede sinonimo di "biologiche", e cosa dire allora delle scienze dell'artificiale (cibernetica, IA, ed oggi Artificial Life); cosa dire ad esempio del contributo fondamentale di Wiener (su cui si fonda la teoria cognitivista degli scopi) che ha sottratto alla filosofia ed al senso comune le nozioni di "fine" psicologico, di intenzione, dando loro una fondazione (in termini di feedback, causazione circolare, loop, ..) che non solo non è di senso comune ma ad esso ripugna ed è del tutto contro-intuitiva? Ingenua talvolta, perché si riscoprono e si contrappongono al vetero-cognitivismo  delle cose del tutto ovvie e ben presenti, tipo l'ontogenesi o l'apprendimento.

 

Sommario è ancora  dire che la prospettiva ed il modello di riferimento del cognitivismo classico è "dualista" (pp.18-19). Chiaramente la prospettiva dominante nel cognitivismo classico non  è dualista ma semmai funzionalista, di un funzionalismo che pretende di essere conciliabile con il monismo e con il materialismo.  E criticare questa pretesa è cosa ben più ardua e che non può essere fatta con una banalizzazione. 

 

Così come è fuorviante un uso di "cognitivo" o "cognizione" talvolta presente nel libro e molto nella discussione attuale (specie nei filosofi).  Se ad esempio uno dice che percezione, cognizione ed azione devono essere collegati, per me già si pone  fuori strada accettando una arbitraria vulgata secondo cui cognizione sarebbe non so se pensiero verbale, ragionamento astratto, o cosa. La percezione mi pare un capitolo sempre presente in qualsiasi manuale di "processi cognitivi". L'azione e la sua teoria è parte in grande misura della cognizione (struttura dell'atto intenzionale, pianificazione, monitoraggio, ecc.). Inoltre, in alcuni ambiti del cognitivismo (a parte ovviamente Piaget) la cognizione nel senso restrittivo di acquisizione ed elaborazione della conoscenza è stata sempre modellata in riferimento all'azione. A parte la "scopistica" (che è un fatto locale e di scarso peso), buona parte della IA è andata proprio in questa direzione.  In genere bisogna respingere l'equazione "cognizione" = "(della) conoscenza", perché il cognitivismo è stato non un settore o dominio delle scienze psicologiche bensì un modo di modellare la mente, tutta la mente (dalle inferenze alle emozioni, dallo sviluppo al sociale, dalla decisione alle abitudini). E la "cognizione" in questo senso ha abbracciato non solo conoscenza e credenza ma tutte le rappresentazioni mentali, anche quelle motivazionali (intenzioni, desideri, bisogni, ecc.), quelle di valore, quelle normative, quelle emozionali.

 

A questa accettazione un po' semplicistica dei nuovi "paradigmi" si legano le due principali osservazioni critiche che io ho da fare. La prima è che vengono accettatati alcuni luoghi comuni,  e che – come abituale in coloro che vogliono criticare il cognitivismo tradizionale - si usa il deformante fodorismo come testa di turco troppo facile da infilzare.  Io personalmente - come vetero-cognitivista- non riconosco affatto in Fodor un rappresentante e campione delle posizioni che hanno realmente operato e dominato. Sarebbe come prendere Lenin a rappresentare il marxismo: e dove finiscono Bernstein, Kautsky, Trotsky, Rosa Luxemburg, Gramsci, ....?

Si prenda la identificazione tra rappresentazioni mentali simboliche e proposizioni o logica. Questo è un luogo comune assurdo, che mi domando come possa essere  sincero, cioè non per puro comodo caricaturale.  E' infatti il cognitivismo che ci ha dato  da molti anni teorie, esperimenti, discussioni sulle "immagini mentali" (capitolo di ogni manuale dei processi cognitivi), e che ci ha spiegato che esistono un pensiero e delle rappresentazioni senso-motorie e procedurali. E' il cognitivismo che ha dimostrato che noi non ragioniamo con la logica e con  deduzioni formali bensì usiamo "modelli mentali".

Bisognerebbe addirittura - per azzerare questo assurdo equivoco - cambiare il termine di "atteggiamenti proposizionali" per chiarire che le rappresentazioni  che fungono da contenuto  delle nostre "credenze", "scopi" ecc.  possono essere di qualsiasi formato: proposizioni (linguistico simili), o rappresentazioni percettivo-motorie. E questa non è certo una novità. Il prototipo del modello degli scopi in psicologia (l'unita' TOTE di Miller Galanter e Pribram; siamo agli inizi) veniva esemplificato con l'atto di piantare un chiodo (o di riempire un bicchier d'acqua) dove sia lo stato corrente del mondo (credenza) sia lo  stato da raggiungere (scopo) sono due rappresentazioni percettive, due immagini. Dovremmo chiamarle "attitudini rappresentazionali"!

 

Un altro luogo acriticamente accettato è che vi sia una convergenza reale, epistemologica e teorica, tra le posizioni che attualmente attaccano il cosiddetto  vetero (o più generosamente "classico") cognitivismo. Ad esempio, tra l'etnometologia e l'approccio naturalistico, o  tra la Distributed cognition e gli approcci neuralisti, magari eliminativisti (che  pensano che i costrutti delle scienze della mente sono psicologia del senso comune che andranno abbandonati appena avremo i modelli "veri" in termini di processi neurali).  Io ritengo che questo non sia vero. Si tratta in realtà di
una convergenza opportunistica tra posizioni spesso tra loro inconciliabili, che tuttavia non approfondiscono le ragioni del disaccordo ma quelle dell'alleanza contro il comune nemico percepito come dominante.  A mio avviso vi è ad esempio una chiara contraddizione tra posizioni fortemente naturaliste e  neuraliste, per le quali non può darsi o descriversi attività cognitiva se non in relazione al tessuto nervoso ed alla sua struttura, e la cognizione distribuita, dove la conoscenza risiede anche fuori del cervello in artefatti ed ambiente, e nella interazione con essi; tanto più se la cognizione distribuita ammette (come spesso è) anche "elaborazione" extracerebrale della conoscenza e non solo conservazione o accesso.  Una coerente "cognizione distribuita" non può non ammettere o che ci possano essere processi (para)mentali fuori delle menti biologiche o che la mente sia anche extracerebrale; in entrambi i casi non mi sembra poter sfuggire ad una visione "funzionalista" (cioè astratta rispetto alla implementazione) della conoscenza e dei processi cognitivi. 

Come si vede un merito del libro è che spinge a considerare qual è il modello di mente che è tacitamente alla base della nostra abituale ricerca. Quali assunzioni implicite facciamo? Cosa diamo per scontato nei (proto)paradigmi in circolazione? Tuttavia spesso per far questo ricorre ad una semplificazione caricaturale ed ingenua di detti paradigmi. 

 

La seconda osservazione critica riguarda la assenza di alcune prospettive e discipline (in particolare, è incredibilmente assente l'IA ed il cognitive modelling in quella tradizione, che non può essere rimpiazzata da Vita Artificiale che compare invece con grande qualità), e di alcune tematiche. Non vi è spazio ad esempio per le emozioni la cui teoria invece (contrariamente ad un altro dei luoghi comuni circolanti) ha ricevuto un impulso straordinario negli ultimi decenni grazie a contributi ed impostazioni cognitiviste, e rappresenta tuttavia uno dei limiti del cognitivismo simbolico classico (con la sua incapacità a modellare il "provare" ed il rapporto con il corpo) e rappresenta una delle “sfide" in atto, come giustamente sostiene Thagard nel suo manualetto. Mentre troppo peso e spazio viene dato ad alcuni problemi o aspetti. L'aspetto "evolutivo" è troppo prevalente  (anche se il nesso con le scienze biologiche è certamente importante).

Per conto mio troppo peso viene anche dato al fuorviante e fuorviato dibattito sulla modularità.  Fuorviante perché assegna a questo problema più merito di quanto abbia per la teoria della mente, e soprattutto perché la versione estremistica di Fodor avrà forse dominato la discussione tra i filosofi ma non ha rappresentato affatto i concreti approcci usati nelle scienze cognitive. Ben altri concetti, più flessibili e dinamici, sono stati usati, ben altre visioni di attività distribuite (con relativa maggiore o minore specializzazione) sono state utilizzate. Si pensi alla visione di un Minsky, o ai modelli di Intelligenza Artificiale Distribuita. E'  inutile prendere a pretesto una riduttiva e rigida definizione di modulo per poi perder tempo a discutere l'ovvio, tipo la multi-funzionalità, o tipo diversi gradi di connettività, o di dipendenza dal contesto o dall'esperienza, ecc.  Per fortuna almeno questa discussione nel libro ha anche aspetti più concreti del solito (ad esempio nel lavoro di Calabretta).

 

Una terza osservazione critica che vorrei fare è che il libro - involontariamente - avvalora una visione psicologistica della scienza cognitiva (o della mente) che è già prevalente in Italia, dove addirittura da molti la scienza cognitiva è vissuta come un ambito (e vorrei dire una "provincia") della psicologia generale ed in particolare dei processi cognitivi. Il sociale ad esempio è trattato in una prospettiva solo di psicologia + antropologia + cognizione distribuita. Very trendy (o forse in realtà un po' datato, a 10 anni fa', ancorchè certo sempre attuale nella lenta Italia). Ma come ignorare  con un tema come "Interazione sociale e cognizione" gli studi dei filosofi, come Searle, Gilbert o Tuomela, o gli studi su "agenti sociali"di IA (Conte &Co.)  e sistemi multi-agente, o il dibattito su  simulazione sociale e natura cognitiva o sub-cognitiva degli agenti? 

 

Dove andiamo? In conclusione. 

Come ebbi modo di scrivere in un bel dibattito appunto su Sistemi Intelligenti:

"Verrà eliminato nel 21° secolo "il paradigma rappresentazionale" che ha caratterizzato IA ed il cognitivismo dalla loro nascita? Verrà rimpiazzato dal nuovo paradigma basato sui sistemi dinamici, connessionismo, "situatezza", incorporazione, ecc.? E' questa la fine dell'ambizioso progetto della IA? Io non lo credo. Gli attacchi e le sfide alla IA ed alla SC sono stati radicali e duri negli ultimi 15 anni, e tuttavia io credo che nel nuovo secolo non assisteremo ad una rivoluzione paradigmatica in cui il connessionismo rimpiazzi il cognitivismo ed i suoi modelli simbolici; i modelli emergentisti, dinamici ed evoluzionisti eliminino il "ragionamento"  su rappresentazioni esplicite e la pianificazione; le neuroscienze (più la fenomenologia) eliminino i processi cognitivi; situatezza, reattività, costruttivismo culturale eliminino concetti generali, astrazioni indipendenti dal contesto, modelli ideal-tipici. La mia tesi  è che la principale sfida scientifica della prima parte del secolo sarà precisamente la costruzione di un paradigma "sintetico" (nello stesso senso in cui lo fu quello che conciliò in biologia la "vecchia" teoria darwiniana, ed i modelli genetici). Un paradigma capace di mettere assieme cognizione ed emergenza, information-processing ed auto-organizzazione, reattività ed intenzionalità, situatezza e pianificazione (Thagard). Dopo una fase di pendolo (si guardi al neo-romanticismo in atto ora sulle emozioni) si andrà ad un paradigma sintetico, capace di conciliare non ecletticamente e praticamente ma nei fondamenti teorici le due visioni. I primi segni di ciò e i primi passi sono [ad esempio] in quella che ormai si dovrebbe chiamare "la nuova IA".

L'IA sta uscendo da una lunga crisi: crisi di finanziamenti, di prestigio, e di identità. Questa crisi non fu dovuta solo ad aspettative esagerate e ad un "overselling" di alcune specifiche tecnologie (come i sistemi esperti) identificate tout court con l'IA. Fu dovuta ad un restringimento degli interessi culturali e dell'influenza della disciplina, e delle sue ambizioni; al dominio del frigido paradigma logicista (che identifica logica e teoria, logica e fondamenti) - si veda il dibattito sul "rigor mortis" - o ad una visione puramente tecnologica, applicativa della IA. Nuovi domini si sviluppavano fuori ed in contrapposizione alla disciplina madre: reti neurali, sistemi reattivi, computazione evoluzionistica, Computer Supported Cooperative Work, modelli cognitivi, ecc. Attacchi pesanti sono stati mossi ai fondamenti filosofici simbolici  e funzionalisti (Suchman; Brooks; Agre; Mataric; Thagard). Tuttavia, grazie all'ammorbidimento di una cornice che era troppo rigida e limitata; grazie a contagi ed ibridazioni; al riassorbimento di reti neurali, sistemi reattivi, computazione evoluzionistica, ecc. come propri figli; grazie allo sviluppo di importanti settori nuovi come il machine learning ed i sistemi distribuiti e multi-agente; grazie allo sviluppo di logiche e linguaggi nuovi, e al trattamento dei problemi dell'incertezza, della conoscenza e razionalità limitata, della probabilità e approssimazione, del mondo aperto e dinamico; grazie infine al nuovo quadro concettuale degli "agenti", l'IA è in una fase di revival e di forte sviluppo. Essa sta anzi recuperando parte della sua aggressività culturale e delle sfide originarie. In effetti è oggi riconosciuto che siamo di fronte ad una "nuova IA" (come ad un nuovo cognitivismo): l'IA uscita rafforzata da quegli attacchi, e caratterizzata dal tema dell'interazione (Bobrow): interazione con un ambiernte in evoluzione; tra diversi sistemi, distribuiti ed eterogenei interferenti tra loro in un mondo fisico od in rete; con gli utenti umani; tra gli uomini tramite i calcolatori. Non più la mente razionale e dimostrante teoremi in un mondo fisso ed isolato e con conoscenza corretta e completa.  Non è ancora una vera teoria sintetica, ma un insieme di aggiustamenti preparatori e di allargamenti di paradigma, in una fase di rapide trasformazioni."

Purtroppo nel libro non solo è assente questo fermento della IA - disciplina che ha invece un ruolo centrale nella scienza della mente, se questa non deve essere solo psicologia in libera uscita - ma è  assente questa prospettiva sintetica. Lo scontro che c'è stato è caricaturale e sembra che vi sia già un vincitore, il nuovo paradigma neural-evolutivo-dinamico-situato-antropologico (che invece è una armata incoerente).

 

Ci sarà rivoluzione o integrazione? Ci sarà integrazione e quindi evoluzione della scienza della mente. 

 

Cristiano Castelfranchi

Universita' di Siena

Direttore Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione

ISTCnr - Roma 

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Replica delle curatrici, Anna Borghi e Tina Iachini

 

Vorremmo ringraziare Cristiano Castelfranchi per la sua recensione che ci fornisce lo spunto per meglio chiarire alcuni presupposti del libro, oltre che per dibattere su come intendiamo la mente e su quale futuro delle scienze della mente ci piace immaginare.

 

Inizieremo dalle critiche relative all`impostazione generale, per poi passare a "difenderci" in relazione a punti più specifici. Infine, proviamo a raccogliere la sfida che Castelfranchi ci pone: quella di immaginarci il futuro.

 

Per iniziare la nostra “difesa” vorremmo ritornare brevemente sugli obiettivi del libro.

Nostro obiettivo non era, e non è, difendere un paradigma – quello connessionista – contro un altro paradigma – quello cognitivista. Nostro obiettivo era cercare di suscitare un dibattito sul modo di studiare la mente e di chiarire i presupposti –spesso impliciti- che sono alla base dei nostri modelli, mostrando l`insoddisfazione verso il modo di studiare la mente fondato sull`idea di elaborazione di simboli.

 

Abbiamo cercato di dar voce a questo disagio, proveniente da persone che lavorano in ambiti disciplinari diversi,  senza per questo annullare le differenze e le specificità di questi ambiti, cercando semmai di sottolinearne le complementarietà. Non vogliamo sostenere che approcci neuralisti e di cognizione distribuita sono sovrapponibili. Indubbiamente le diverse metodologie adottate portano a concentrarsi su aspetti diversi dello studio della mente (o di cio` che è extra-mentale). È vero anche, tuttavia, che sul piano teorico ed epistemologico le convergenze sono molteplici - anche se a questa affermazione si potrebbe obiettare che metodologia e fondamenti epistemologici sono necessariamente connessi. Ci pare infatti (e non solo a noi: si veda il numero monografico del 2002 sull`embodiment di Cognitive System Research, in cui sono presentate ricerche di stampo neuralista e ricerche di cognizione distribuita) che accomuni questi approcci la consapevolezza che occorra andare oltre il mentale, cioè che lo studio della mente vada intrapreso in interazione con lo studio del corpo e dell`ambiente, fisico, sociale, culturale, in cui viviamo.

 

Castelfranchi sottolinea che avremmo potuto lasciare spazio a discipline o temi che non sono stati affrontati, e che avremmo potuto ridimensionare lo spazio destinato ad altri temi.

Sicuramente nelle nostre scelte ci sono stati dei limiti. Castelfranchi sottolinea che avremmo potuto lasciare spazio ai nuovi fermenti dell`IA, o a temi come le emozioni, e in questo ha sicuramente ragione. Tuttavia, non era nostra pretesa (come peraltro sottolineiamo nell`Introduzione al volume) fornire un panorama esaustivo ed esauriente delle scienze della mente più innovative e interessanti. La nostra scelta di "non-esaustività" riguarda anche i singoli capitoli. Abbiamo cercato, tutti, di illustrare con chiarezza un problema, senza necessariamente fornire un panorama completo della letteratura di un settore, semplicemente cercando di presentare una tesi e di portare evidenze a sostegno.

 

Difendiamo, invece, la scelta di dedicare ampio spazio alla prospettiva evolutiva, o evoluzionista, e al dibattito sulla modularità, ad essa intimamente legato. L`adozione di una prospettiva evolutiva, o evoluzionista, costituisce a nostro avviso un aspetto qualificante del volume. Ci sembra infatti che, nel panorama italiano, questo tema non abbia avuto il risalto che ha avuto negli ultimi anni nel panorama internazionale. È in questo quadro che abbiamo pensato di dare rilievo al dibattito sulla modularità - proprio perché, attraverso l`analisi di questo tema, si puo` cogliere come si sia snodato il dibattito. L`obiettivo consisteva nel trattare anche di questo tema tramite un approccio multidisciplinare – per cui a fianco ad un intervento più filosofico-teorico abbiamo presentato un lavoro di taglio sperimentale e uno che si avvaleva di simulazioni di AL.

 

Circa l`impostazione “psicologistica” del volume. Sicuramente la parte del volume su Mente, interazione sociale e cultura è la più variegata, a causa della diversità tematica e anche del fatto che i contributi provengono da ambiti disciplinari e da pratiche metodologiche assai diversi. È sicuramente vero che sarebbe stato opportuno introdurre contributi ulteriori – per esempio, come suggerisce Castelfranchi, un saggio sui sistemi multiagente avrebbe arricchito il volume. Ci dispiace tuttavia che Castelfranchi abbia visto il sociale trattato solo attraverso una sommatoria di psicologia + antropologia + cognizione distribuita. In realtà a noi pare che i saggi portino ad una visione integrata e complementare, anche se sicuramente non esaustiva, di cio` che è "oltre l`individuo" - da un lato si pone l`accento sulla dimensione evolutiva dello studio del linguaggio e della cultura, dall`altro si sottolinea come la coscienza sia radicata nel corpo, dall`altro si mostra come, attraverso metodologie osservative, sia possibile studiare la cognizione in uso nell`azione sociale.

 

Ancora una questione di impostazione, l`ultima.

Castelfranchi ha ragione quando sostiene che in tanti casi semplifichiamo. Sarebbe scorretto imputare cio` a problemi di spazio, ma sicuramente in certi casi abbiamo optato per un`impostazione che, per essere chiara, sacrificava l`approfondimento e le sfumature. Certo il mondo non è bianco o nero, e forse noi lo abbiamo dipinto in questo modo. Soprattutto è vero che il cognitivismo non è un fenomeno così semplice come noi lo abbiamo descritto, che non esiste il cognitivismo ma i cognitivismi, e che alcuni di questi cognitivismi sono vicini ad un`impostazione “incarnata” e neuralista. Sicuramente abbiamo accentuato lo scontro tra paradigmi nell`intento di far risaltare i punti deboli del cognitivismo. Ad esempio, è indubbio che in ambito cognitivista ci siano studi sulla mente nel suo complesso, dalle inferenze alle emozioni. È però altrettanto vero che certi settori hanno avuto un peso ed una rilevanza maggiori e altri ambiti sono stati assai trascurati – come Castelfranchi stesso riconosce, lo studio della mente emotiva, o del comportamento sociale, sono stati spesso sacrificati a spese dello studio dei processi cognitivi.

 

Veniamo ora alle ingenuità che Castelfranchi ci attribuisce, cercando di approfondire un minimo.

 

La prima riguarda cose “del tutto ovvie e ben presenti al vetero-cognitivismo”, tipo l'ontogenesi o l'apprendimento. Rifacciamoci, seguendo le orme di Castelfranchi, ai manuali di psicologia. Non ci sembra del tutto casuale che i principali modelli dell`apprendimento siano prevalentemente di matrice comportamentista, gestaltista o, al limite, connessionista. L`impostazione innatista del cognitivismo (o di certo cognitivismo, dato che non tutti i cognitivisti sono innatisti) non porta a negare la rilevanza dell`apprendimento (questa, sì, sarebbe un`operazione ingenua), ma indubbiamente ne riduce la portata. Basti pensare all`idea del bambino/a come piccolo/a scienziato/a, che apprendendo nuove nozioni non fa che “ristrutturare” o “integrare” conoscenze precedenti. Non è così in ambito connessionista (si veda Rethinking innateness, Elman, Bates,  Johnson, Karmiloff-Smith, Parisi, e Plunkett, 1996), come sottolineiamo nell`introduzione al volume trattando del modularismo: a differenza che per i cognitivisti, secondo i connessionisti la conoscenza non è rappresentata a livello corticale tramite moduli, anche se sono attive predisposizioni a livello subcorticale, ma emerge dall’interazione tra organismo e ambiente.

 

Circa l`uso del termine dualismo: lo difendiamo. Per il cognitivismo lo studio della cognizione avviene senza considerare imprescindibile lo studio del sistema nervoso.  Sicuramente l`impostazione è funzionalista, ma presuppone, che sia o meno esplicitato, una separazione tra lo studio del comportamento e quello delle strutture neurali. Non a caso si parla di impostazione razionalista e neocartesiana. Quantomeno si affronta lo studio del comportamento senza necessariamente tener conto di quali strutture neurali potrebbero sottostare i processi, e si postulano delle strutture intermedie (le rappresentazioni) tra strutture neuronali e processi cognitivi.

 

Circa l`uso ingenuo del termine “cognizione”. E’ vero che parlare di percezione, cognizione, azione può voler dire l’accettazione implicita di una separazione tra i tre ambiti che non è sempre riscontrabile nel cognitivismo classico. Studi sulla percezione e l’azione hanno fatto la storia del cognitivismo e sono presenti più o meno in ogni manuale di psicologia. Ma qui non si parla di contenuti, di “cosa” si studia bensì dei presupposti dei modelli cognitivi. Un concetto cardine del cognitivismo è elaborazione dell’informazione. Questo concetto viene definito nei due assunti strutturale e funzionale, cioè stato dell’informazione ad un certo livello di elaborazione e tipo di elaborazione condotto sugli stimoli. In questo quadro è centrale il concetto di codifica: rendere elaborabile cognitivamente l’informazione. Allora, nel ciclo percezione-cognizione-azione quando l’elaborazione diventa “cognitiva”? Zenon Pylyshyn, uno dei protagonisti attuali della scienza cognitiva, nel 1999 scrive un articolo che fa il punto del dibattito sulla relazione tra percezione visiva e cognizione. Secondo l’autore, la percezione visiva non è propriamente parte della cognizione. La percezione, almeno ad uno stadio precoce (early processing) segue le sue proprie regole, è impenetrabile cognitivamente e produce come output una descrizione della forma degli stimoli. L’elaborazione diventa cognitiva nella fase di decisione post-percettiva, quando il materiale ha assunto una organizzazione tale che lo rende disponibile a operazioni di riconoscimento e identificazione. Lo scopo della percezione, afferma esplicitamente Pylyshyn, è di produrre outputs separati che servono le funzioni del controllo motorio e le funzioni cognitive, cioè di riconoscimento. Dunque, quand’è che l’informazione è elaborabile cognitivamente? Quando è tradotta in simboli, siano essi proposizionali o analogici? Se così è, percezione e cognizione sono separate.

In ambito cognitivista, dunque, – anche qui, che sia esplicitato o meno - prevale il modello per cui la percezione precede in un processo lineare l`azione (Sternberg, 1969), modello che comporta che l`azione non abbia effetti sulla percezione (si veda la recente introduzione di Ward, 2002, ad un numero di Visual Cognition su percezione e azione). Soltanto negli ultimi anni si va sottolineando lo stretto intreccio tra percezione, azione, cognizione - grazie a studi psicofisiologici sui sistemi dorsale e ventrale, a studi comportamentali e a simulazioni connessioniste.

 

Per quanto riguarda l’azione, è vero che si tratta di uno dei temi “classici” del cognitivismo, basti pensare a Miller, Galanter e Pribram, a modelli che incorporano la memoria procedurale accanto alla semantica e episodica. Occorre pero` distinguere due accezioni con cui il termine azione viene usato. L`azione complessa, guidata e mediata da scopi, è sicuramente un capitolo centrale della ricerca cognitivista. L`azione intesa invece nel senso di comportamento motorio è stata studiata, ma indipendentemente dal suo rapporto con la percezione da un lato e con i cosiddetti processi “superiori” dall`altro. Qual è l’interesse centrale del cognitivista nello studiare l`azione? In linea di massima –e con il rischio di qualche semplificazione- i modelli cognitivi cercano di esplicitare le regole high level che guidano l’azione. Prendiamo ad esempio l’ACT di Anderson (1983). La memoria procedurale contiene le nostre conoscenze a proposito di come fare qualcosa. Sostanzialmente, si tratta di regole di produzione che assumono la forma del classico enunciato deduttivo SE…..ALLORA…… e che stabiliscono in quali condizioni si può fare qualcosa. Dunque si tratta di un modello logico dei processi che regolamentano l’azione. Questo è in linea con le radici storiche di un certo modo di pensare tipico del cognitivismo. Pensiamo a come Hebb concepisce il Sistema Nervoso Centrale e che ruolo fondamentale ha avuto nel passaggio dal comportamentismo al cognitivismo. Come è noto, Hebb era interessato ai “processi di mediazione”, cioè ai circuiti neuronali che trattenevano l’informazione e che mediavano tra stimolo e risposta. Ora, questi processi interni erano visti come un modello logico dei processi mentali. In altre parole, la plausibilità del modello si reggeva su un principio implicito di necessità logica non sulle conoscenze acquisite a proposito del funzionamento del cervello. La modellizzazione dei processi cognitivi su base logica è un modo di procedere tipico del cognitivismo. Con questo non vogliamo dire che la risoluzione di tutti i problemi sia accumulare dati sul funzionamento del cervello sempre e comunque. Un rozzo neurologismo può essere peggio di un astratto e logico cognitivismo. Non basta usare PET e fMRI per produrre dati attendibili, ma occorre una misura della prestazione cognitiva e un modello chiaro dei processi coinvolti nel fenomeno di studio. Però, possiamo costruire modelli e fare ricerca senza sapere in che modo funziona il cervello e in che modo il nostro sistema sensomotorio interagisce con l’ambiente?

 

A proposito del concetto di rappresentazione, è vero che la rappresentazione analogica o immagine mentale ha avuto – ed ha - un ruolo centrale nelle ricerche e nei modelli della cognizione. Ma pensiamo al dibattito analogico-proposizionale e al modo in cui è stato risolto. Il cuore della questione era se le operazioni cognitive si basassero su un unico sistema di simboli o su sistemi differenziati. Dopo anni di prove e controprove, si è giunti ad ammettere che la questione è irrisolvibile su base comportamentale perché, come scrive Anderson (1978),  un sistema proposizionale può sempre imitare un sistema analogico e viceversa. Quindi non si critica il presupposto, cioè la traduzione dell’informazione in un codice, ma si ammette la possibilità di più codici. 

 

Veniamo ora alla sfida che Castelfranchi ci pone: immaginarci il futuro. È possibile che emerga un paradigma sintetico. La storia della scienza ci insegna che spesso i nuovi paradigmi inglobano e incorporano diversi aspetti e conquiste dei paradigmi precedenti. Come scriviamo nell`Introduzione del libro, siamo per uno studio profondamente interdisciplinare e quindi per la contaminazione tra discipline, paradigmi, metodologie, perché la complessità può essere affrontata solo unendo, non separando, prospettive diverse. Quindi ben venga un paradigma sintetico. Purché emerga da una profonda ibridazione e dalla consapevolezza della centralità dello studio del cervello, del corpo e dell`interazione con l’ambiente per lo studio della mente.

 

 

 

 

 

 

Riferimenti bibliografici

 

Anderson, J.R. (1978). Arguments concerning representation for mental imagery. Psychological Review, 85, 249-277.

 

Anderson, J.R. (1983). The architecture of cognition. Cambridge, MA: Harvard University Press.

 

Elman, J. L., Bates, E. A., Johnson, M.H., Karmiloff-Smith, A., Parisi, D., e Plunkett, K. (1996). Rethinking Innateness. A Connectionism Perspective on Development. Cambridge, MA: MIT Press.

 

Pylyshyn, Z. (1999). Is vision continuous with cognition? The case for cognitive impenetrability of visual perception. Behavioral and Brain Sciences, 22, 341-423.

 

Sternberg, S. (1969). The discovery of processing stages: Extensions of Doder‘s method. In W.G. Koster (Ed.), Attention and Performance II. Amsterdam: North-Holland Publishing Company.

 

Ward, R. (2002). Independence and integration of perception and action: An introduction. Visual Cognition, 9, 385-391.

 

 

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Indice del volume

 

Introduzione, di Anna M.Borghi e Tina Iachini

 

Parte I – Mente, evoluzione e modularità

1 - Evoluzione e modularità concettuale, di Gloria Origgi

2 - Connessionismo evolutivo e origine della modularità, di Raffaele Calabretta

3 - Lo studio comparato delle menti, di Valeria Anna Sovrano e Giorgio Vallortigara

 

Parte II – Mente, cervello e corpo

4 - Cervello, percezione e movimento, di Sergio Chieffi

5 - Il corpo che ci racconta una mente, di Maurizio Codispoti

6 - Simulare la mente, di Andrea Di Ferdinando

7 - La psicologia degli automi, di Orazio Miglino e Stefano Nolfi

 

Parte III – Mente, ambiente e azione

8 - Spazio, movimento e immagini mentali, di Tina Iachini

9 - Ambiente e memoria, di Raffaella Nori

10 - Concetti e azione, di Anna M.Borghi

 

Parte IV - Mente, interazione sociale e cultura

11 - L’emergere del linguaggio, di Angelo Cangelosi e Huck Turner

12 - La coscienza incarnata, di Roberta Lorenzetti

13 - Interazione sociale e cognizione, di Renata Galatolo e Luca Greco

14 - Cultura ed evoluzione, di Morana Alac

 

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Sintesi delle varie parti del volume

 

Parte I – Mente, evoluzione e modularità

I saggi di questa parte sono stati scritti da autori di diversa formazione, anche se tutti operanti nell’ambito della scienza cognitiva: filosofia della mente (Origgi), biologia evoluzionistica (Calabretta) e psicologia comparata (Sovrano e Vallortigara). I tre saggi hanno in comune un’impostazione evoluzionista; in quest’ottica essi affrontano il problema dell’architettura della mente. Tutti concordano nel ritenere che la mente sia composta da un insieme di moduli ognuno dei quali svolge una specifica funzione adattativa.

Per esplorare questo tema gli autori usano metodologie diverse e diversi oggetti di studio. Origgi fa riferimento a dati ottenuti nell’ambito della letteratura psicologica sui concetti dei bambini e della letteratura etnobiologica sui concetti nelle diverse culture. Calabretta riporta simulazioni di Vita Artificiale. Sovrano e Vallortigara utilizzano esempi tratti dallo studio comparato delle varie specie animali.

I saggi si differenziano anche per l’impostazione teorica. In particolare, Gloria Origgi  presenta una visione computazionale della mente; Raffaele Calabretta evidenzia i vantaggi del paradigma connessionista.

Gloria Origgi difende la psicologia evoluzionista riprendendo l'idea di Fodor della mente come insieme di meccanismi computazionali specializzati, estendendola a funzioni cognitive più complesse e integrandola in una prospettiva evoluzionista. Mostra che l’ipotesi della modularità massiva, secondo cui  l'architettura cognitiva umana è composta interamente da moduli specializzati, è quella che meglio si accorda con una concezione adattativa della mente.

Raffaele Calabretta sostiene che le scienze cognitive sono due: il cognitivismo e il connessionismo. Partendo da simulazioni di Vita Artificiale propone una nuova forma di connessionismo, modularista ed evoluzionista: il connessionismo evolutivo. I moduli cui fa riferimento sono moduli neurali, fisici, e non costrutti teorici postulati come quelli dei modelli cognitivisti.

Valeria Anna Sovrano e Giorgio Vallortigara, criticando alcuni pregiudizi diffusi, sostengono che l’evoluzione non procede in modo lineare e che implica cambiamento, non necessariamente progresso. Da ciò deriva l’idea della cognizione come insieme di moduli adattativi che ogni specie animale ha sviluppato per risolvere problemi specifici nella nicchia ecologica in cui si è evoluta.

 

 

Parte II – Mente, cervello e corpo

 

I saggi di questa parte riguardano i rapporti tra mente, cervello e corpo. Hanno in comune l’idea che i modelli che si usano per studiare la mente e il comportamento debbano ispirarsi alle caratteristiche del cervello e del corpo. Tuttavia, Codispoti sostiene che il problema ontologico mente-corpo  non può essere studiato in modo scientifico, mentre è importante avvalersi degli indici fisiologici per sviluppare le nostre conoscenze sui processi cognitivi e le loro basi biologiche.

Sergio Chieffi e Maurizio Codispoti studiano il  cervello e il corpo di organismi reali con un approccio neuropsicologico e psicofisiologico; Andrea Di Ferdinando, Orazio Miglino e Stefano Nolfi studiano il cervello e il corpo di organismi artificiali tramite simulazioni di Vita Artificiale e di robotica. 

Sergio Chieffi presenta la neuropsicologia, che studia pazienti con lesioni cerebrali tramite metodi diversi tra cui tecniche di visualizzazione cerebrale. Il saggio tratta dei movimenti che compiamo per interagire con gli oggetti e illustra i meccanismi nervosi che sono alla base di questi comportamenti motori apparentemente semplici.

Maurizio Codispoti mostra che la psicofisiologia usa gli indici fisiologici per studiare i processi cognitivi, cioè i processi di elaborazione delle informazioni secondo il paradigma cognitivista. Gli indici fisiologici spingono anche a riformulare in modo più preciso quesiti classici della psicologia, come nel caso dell’attenzione selettiva.

Andrea di Ferdinando parla dell’applicazione delle simulazioni allo studio della mente. Illustra le caratteristiche delle reti neurali e difende il paradigma connessionista contrapponendolo a quello cognitivista. Distingue tra il connessionismo classico e la Vita Artificiale che studia i vari aspetti della vita biologica, dal sistema nervoso al comportamento alla vita sociale.

Orazio Miglino e Stefano Nolfi sostengono che, quando si usano reti neurali artificiali, la realtà è rifatta nel computer. Presentano gli studi di robotica e propongono una psicologia degli automi, che da un lato crea degli organismi artificiali, dall’altro svela i meccanismi cognitivi grazie ai quali funzionano.

 

 

Parte III - Mente, ambiente e azione

 

I saggi di questa parte sottolineano l’importanza del corpo e dell’azione per la cognizione e criticano le concezioni dualiste del rapporto mente-corpo. Le autrici parlano di continuità tra percezione, cognizione e azione e mostrano che la cognizione è incarnata e situata, legata al corpo degli individui e ai contesti in cui agiscono. La percezione è selettiva e guidata dalle possibilità d’azione offerta dagli oggetti.

I tre saggi discutono in maniera diversa della rappresentazione mentale. Borghi e Iachini intendono concetti e immagini mentali in termini neurali e come simulatori che anticipano azioni future. Mostrano che, per agire, non è necessaria una  rappresentazione interna del mondo dettagliata ed esplicita ma flessibile e dinamica. Nori, quando parla di mappe cognitive, attribuisce  più importanza a forme stabili di rappresentazione. 

I saggi rimandano a dati di ambiti diversi: psicologia cognitiva in tutti, psicologia evolutiva in Nori e Borghi, psicologia comparata in Iachini e Borghi, neuropsicologia e psicofisiologia in Iachini e Borghi, simulazioni connessioniste in Borghi.

Tina Iachini parla della relazione tra ambiente, movimento e immagini mentali. Mostra che  l’acquisizione dell’informazione spaziale è specializzata:  il sistema senso-motorio registra gli aspetti dell’ambiente importanti per la sopravvivenza. Per muoverci con successo abbiamo anche bisogno di simulare, tramite immagini mentali, l’interazione tra corpo e ambiente, riproducendo le caratteristiche metriche e le forze dinamiche che agiscono nello spazio.

Raffaella Nori tratta delle relazioni tra individuo, ambiente e memoria. Per muoverci nell’ambiente in modo autonomo abbiamo bisogno sia di informazioni acquisite al momento grazie al sistema percettivo-motorio sia di ricordi di esperienze precedenti. Il saggio mostra che la memoria e il comportamento sono influenzati da caratteristiche ambientali, come il rumore e le variazioni climatiche, e da fattori socioculturali.

Anna Borghi tratta del rapporto tra concetti e azione. Evidenzia alcuni limiti dei modelli della categorizzazione e mostra che i concetti sono pattern distribuiti di attivazione neurale che, in assenza di stimoli percettivi, guidano le azioni, rimandano a esemplari e situazioni e sono flessibili. Accanto ai metodi sperimentali, le simulazioni con reti neurali e la teoria dei sistemi dinamici sono nuovi modi per studiare i concetti come sistemi complessi fondati sull’azione.

 

Parte IV – Mente, interazione sociale e cultura

 

Questa parte, la più eterogenea, si potrebbe intitolare ‘Oltre l’individuo’. Qui la cognizione, vista come incarnata e situata, diventa uno strumento per l’interazione sociale e la trasmissione culturale. L’unità d’analisi, così, non è l’individuo ma il gruppo e la popolazione. Qui il linguaggio ha un ruolo decisivo. Cangelosi e Turner ne studiano la genesi e l’evoluzione tramite simulazioni connessioniste e di Vita Artificiale, Lorenzetti ne tratta come strumento per studiare la coscienza, Galatolo e Greco lo intendono come mezzo per agire con gli altri, nel saggio di Alac diventa parte di un fenomeno più ampio, la cultura.

I saggi attribuiscono diverso peso alle basi neurali e biologiche della cognizione. Per Cangelosi e Turner e Alac linguaggio e cultura sono fenomeni radicati nella biologia che si sviluppano secondo un modello evoluzionista; per Lorenzetti la coscienza è radicata nel corpo; Galatolo e Greco studiano il linguaggio indipendentemente dal suo sostrato neurale.

Angelo Cangelosi e Huck Turner parlano del linguaggio come sistema complesso in cui interagiscono fattori individuali, neurali, sociali e adattativi. Questa interazione porta all’emergere di abilità linguistiche e simboliche complesse. Trattano dei modelli simulativi di evoluzione del linguaggio come metodi complementari a quelli della psicologia e delle scienze sociali.

Roberta Lorenzetti analizza diverse definizioni di coscienza secondo tre prospettive: filosofica, neurobiologica e psicologica. Mette in luce le strette relazioni tra l’emergere della coscienza e quello del linguaggio e illustra i principali problemi metodologici nello studio di questo complesso fenomeno.

Renata Galatolo e Luca Greco presentano alcuni approcci allo studio della cognizione e della comunicazione che partono da una prospettiva sociale e culturale come l’antropologia sociale della cognizione, la psicologia discorsiva, l’analisi della conversazione. Presentano la categorizzazione come esempio di pratica sociale situata nel contesto e gli studi sull’interazione sociale nei luoghi di lavoro come esempi di cognizione distribuita.

Morana Alac sostiene che non si può studiare la cultura senza considerare la mente e il cervello. Illustra diversi approcci che studiano il rapporto tra evoluzione e cultura. Individua nella creatività il tratto specifico della cognizione umana che le nuove teorie evoluzionistiche della cultura dovrebbero spiegare.